Ciclobby a Erto 02 webSono ormai troppo avanti con l’età per non ricordare quando accadde. E la cosa mi aveva colpito ancor di più perché avvenuta vicino al mio paese. Anche per questo, ogni estate dall’Alpago salgo alla diga per ricordare quei duemila sventurati. Longarone, Codissago, Erto, Pirago, Villanova, Maè: tutti quei paesi io li avevo visti vivi, prima che scomparissero. Troppe dunque le ragioni per non

mancare all’appuntamento con l’iniziativa di Paciclica per il 50° della sciagura del Vajont.
Così, la matttina di sabato 24 agosto sono partito in bici da Tambre. Tempo variabile, un po’ coperto, aria frizzante, non promette bene, forse pioverà… speriamo di no. È alla stazione di Belluno l’appuntamento con il gruppo FIAB Bologna Monte Sole, numeroso e organizzatissimo con pullman e carrello portabici di ultima generazione. Ad attenderlo ci sono anche i compagni della FIAB di Belluno, capitanati da Bortolo e Beppe, che guideranno il gruppo dei trenta ciclisti lungo il percorso.
Fin da subito capiamo che le nostre guide ci eviteranno, per quanto possibile, le strade trafficate. Appena usciti dal centro di Belluno, infatti, prendiamo una sinuosa ciclabile che si snoda a monte della statale, fin oltre Ponte nelle Alpi. La prima tappa è alla centrale ENEL di Soverzene, il “cervello” che comanda le acque che dai bacini idroelettrici delle valli circostanti arrivano al Piave. Nel bellissimo mosaico che campeggia nell’atrio della centrale è beffardamente indicato anche il bacino del Vajont, naturalmente il più capiente di tutti. Almeno… così avrebbe dovuto essere.
Lasciamo la centrale e ci dirigiamo verso Longarone, pedalando lungo la stradina che costeggia il Piave, sulla sponda di sinistra, parallela alla sempre troppo trafficata statale di Alemagna. Dopo Dogna, una sosta è d’obbligo, perché all’improvviso compare, in alto a destra, la diga: imponente, sbarra imperiosamente l’orrido della valle del Vajont. Bortolo ci spiega cosa c’era prima della sua costruzione e, per chi ancora non lo avesse ben chiaro in mente, cosa accadde la sera del 9 ottobre 1963. Il pensiero va a cosa sarebbe successo in più se la diga avesse ceduto alla pressione dell’acqua in seguito alla frana del Toc. Ma la diga tenne: dunque il problema non era stato la diga in sé, ma il fatto che fosse stata costruita lì…
ciclobby 03 webEccoci all’incrocio con la provinciale che arriva da Longarone, dove inizia la salita verso Erto. La pendenza è dolce, ma decidiamo comunque di dividerci in due gruppi. Superiamo le gallerie, con le targhe a ricordo di tecnici e operai sorpresi dall’ondata nel cantiere della diga, e arriviamo allo spiazzo antistante la diga, o meglio, quello che è chiamato il “coronamento” della diga. Sosta forzata, il luogo è sempre affollato, in qualsiasi stagione: ci sono la chiesetta commemorativa e il gazebo con le foto di Bepi Zanfron, spesso c’è anche un chiosco di gelati; ma soprattutto è il punto di partenza per le visite guidate lungo il coronamento della diga, il vero obiettivo dei visitatori.
Attendiamo un po’, ma il secondo gruppo è ancora lontano. Decidiamo quindi di salire a Casso, punto panoramico della valle. Qualche curva, un paio di tornanti ed ecco che lo sguardo viene calamitato dalla parete del Toc: la grande “M” che vide per primo il professor Müller è ancora lì, come l’immensa zampata di un enorme dinosauro che in pochi minuti ha spento duemila vite spostando 270 milioni di metri cubi di alberi, rocce e sassi alla velocità di 100 km orari. Provo a pensarci, ma inutilmente: è una cosa inimmaginabile.
Ritroviamo i compagni del secondo gruppo e ci fermiamo per mangiare qualcosa. Poi Bortolo ci porta a fare quello che lui chiama “il giro della frana”, cioè di quello che è rimasto del vecchio lago colmato quasi totalmente dal materiale franato dal Toc. La natura ha fatto ricrescere gli alberi e i cespugli, a Pineda, Liron e Prada ci sono prati e pascoli, all’apparenza sembra un ameno paesaggio di montagna, ma chi non sa com’era prima, non può rendersi conto di come il luogo sia cambiato da quella sera. C’è però chi ancora se lo ricorda, ma purtroppo non lo potrà fare ancora per molto, per cui è doveroso, oltre che estremamente importante, che qualcuno raccolga e conservi la memoria di un mondo che non c’è più.
Arriviamo infine a Erto, quella vecchia, con le case dai tetti di pietra e i vicoli stretti. C’è sempre l’Osteria del Gallo Cedrone: non c’è Mauro Corona, il suo cliente più illustre, ma ci fermiamo volentieri a bere qualcosa. Qui, sebbene siano trascorsi ormai cinquant’anni, tutto è ancora impregnato della tragedia, i muri di sasso, gli scorci verso la valle, le case abbandonate. Sembra di respirare ancora l’aria di quella sera di Ottobre. Purtroppo certi luoghi si legano in modo indissolubile a certi eventi, e il tempo spesso non riesce a rimarginare le ferite.
Dopo le foto di rito, voltiamo la prua delle nostre bici verso valle e facciamo ritorno. È ormai tardo pomeriggio e, per nostra fortuna, non ha piovuto. A Longarone ci separiamo dai compagni di Bologna, il loro pullman li attende per riportarli a casa. Poco più avanti, prima di Ponte nelle Alpi, saluto Bortolo e gli amici della FIAB di Belluno, che mi fanno coraggio, dato che ho ancora da fare una salita tosta per arrivare a Tambre.
Mentre riempio la borraccia a una fontana, si avvicina un bambino in bici, vede la bandierina gialla della FIAB legata alla mia bici e mi chiede cos’è la FIAB. Non sono mai molto pronto a rispondere in modo semplice e chiaro a domande così a bruciapelo, ma stavolta devo dire che mi è venuta bene: “È un grande gruppo di amici che vanno in bici e che, quando s’incontrano, fanno un pezzo di strada insieme”. Bello, no?
E allora, grazie Gino, per la tua iniziativa in ricordo del Vajont e per l’opportunità che ci hai dato d’incontrare nuovi amici ciclisti!

Danilo Fullin

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